lunedì 25 agosto 2014

Acqua azzurra, acqua chiara

La fontana di Niccolò V
Per circa 849 anni, dal 312 a.C. al 537 d.C., l'approvvigionamento idrico non fu mai un problema per i cittadini di Roma, basti pensare che il volume d'acqua di cui disponeva la città in epoca costantiniana, nel 1968 non era ancora stato superato. A partire dal VI secolo la crisi economica e la relativa crisi demografica, insieme ai danni procurati (dai Goti e dai Bizantini) agli acquedotti durante la guerra gotica, resero impossibile la manutenzione di quella gigantesca rete idrica che inevitabilmente si ridusse ai minimi termini; se non scomparve del tutto fu solo grazie a qualche restauro, di cui però beneficiarono soprattutto gli istituti religiosi. 
  La fine degli acquedotti coincise anche con la fine di un certo modo di vivere; la popolazione rimasta in città abbandonò le pendici dei famosi colli, andando ad occupare tutta l'area monumentale, il cosiddetto Campo Marzio. E così, dopo 849 anni, i Romani ricominciarono a bere l'acqua del Tevere. 
  La nuova abitudine diede luogo, nel corso dei secoli, a una particolare figura professionale: il facchino venditore d'acqua, chiamato anche acquarolo, acquarenario, acquafrescaro. Il facchino si riforniva al fiume, o in qualche pozzo privato, oppure si recava nella piazza di Trevi, dove riempiva i suoi contenitori alla fontana del Vergine; questo, unico acquedotto rimasto sempre in funzione, nel 1453 fu parzialmente restaurato da Niccolò V (la fontana nella piazza di Trevi fu realizzata da Leon Battista Alberti). 
  Bere l'acqua di fiume divenne quindi una necessità; tuttavia, nel Cinquecento, alcuni medici che frequentavano la corte papale intrapresero una campagna di persuasione per dimostrare come l'acqua del Tevere fosse senza dubbio migliore di quella trasportata dagli antichi acquedotti. Uno di essi, Alessandro Petronio, nel 1552 scrisse un libro (dedicato a Giulio III) in cui si esaltavano le proprietà dell'acqua tiberina, "ricca di tutte le possibili qualità sia all'olfatto, sia al gusto, soavissima e limpidissima, raccomandabile ad ogni età, utile al fegato, alla milza, ai polmoni, ai nervi". Nel suo entusiasmo Petronio vide addirittura la mano della Provvidenza nella distruzione degli acquedotti operata da Vitige re dei Goti. Anni dopo, nel 1581, nonostante l'acquedotto Vergine fosse stato ormai restaurato (1570), il Petronio scrisse un altro libro, continuando ad esaltare l'acqua tiberina ma ammonendo che per poter godere di tutte le sue qualità l'acqua doveva essere lasciata a spurgare per sei mesi (proprio così). 
  Forse l'accorata difesa dell'acqua tiberina nasceva dal desiderio di Petronio di proteggere dalle critiche papa Giulio III (1550-1555), che proprio in quegli anni aveva fatto costruire appena fuori porta del Popolo la magnifica Villa Giulia (oggi sede del Museo Nazionale Etrusco). Il ninfeo della Villa era alimentato dall'Acqua Vergine, sottratta quindi, in parte, alla pubblica fruizione in piazza di Trevi. 
  Nel 1570 terminò il restauro dell'Acqua Vergine (chiamata anche Acqua di Salone) e finalmente furono create utenze pubbliche  e private. Da questo momento in poi Roma iniziò a vivere una nuova fase, testimoniata dalle bellissime fontane di Giacomo della Porta ... ma questa è un'altra storia.

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